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Un ricordo di Elisabetta Visalberghi

Martedì 21 febbraio 2017. Ieri sera è morta Carlotta. Un cebo che ho visto nascere e poi morire molti anni dopo. Sono contenta di essere tornata in tempo dalla Spagna per vederla, ma anche molto triste perché le avevo promesso di stare più tempo con lei dopo la mia pensione. E lei non ha aspettato il 1 aprile, data del mio pensionamento. Carlotta  ha partecipato alle nostre ricerche da quando è nata a pochissimi giorni prima di morire (22 ottobre 1984 - 20 febbraio 2017), cioè per quasi 33 anni.

Per me è importante ricordarla. Così ho staccato dal muro la foto di quando Carlotta aveva pochi mesi e me la sono piazzata davanti. Nella foto è sola in mezzo alle foglie di un albero di oleandro su cui si era arrampicata. Ricordo che quando successe ero terrorizzata all’idea che le potesse capitarle qualcosa di brutto; ma lei, molto intraprendente e vogliosa di esplorare, non aveva paura del mondo né dell’altezza a cui si trovava.

Carlotta è stata da sempre affascinata dal mio anello di rubini rossi. Siccome sono cabochon (cioè tondeggianti, non sfaccettai) sembrano grossi mirtilli rossi. Lei cercava di estrarli dalla montatura con le sue dita fini e le unghie lucide come semi di lino, e se la lasciavo fare ci provava con i denti. Da giovane Carlotta aveva inventato il gioco di battere il palmo della sua mano sul mio palmo e siccome qualche volta era stata ricompensata, “batti il cinque” era diventato il suo modo di chiedere attenzione e (se possibile) qualcosa di buono da mangiare. Così avevamo fatto un esperimento per vedere se qualche altro cebo avrebbe imparato a “battere il cinque” osservando Carlotta. Non capitò. Ma parecchi anni dopo anche Gal e Robinia hanno “battuto il cinque” Ambedue lo hanno imparato indipendentemente da Carlotta. Ciò dimostra che se più individui fanno la stessa cosa non necessariamente l’hanno imparato per imitazione ma possono anche averlo inventato autonomamente.  

La prima volta che vidi Carlotta corteggiare un maschio aveva circa 4 anni e stava giocando con Cammello. Ad un dato momento Carlotta cominciò a trascinarlo per terra, lo tirava per la coda mentre lui stava a pancia in su. Pensavo giocassero; è difficile rendersi conto che la propria “bambina” non è più tale. Dal “gioco” si passò rapidamente al vero e proprio corteggiamento. Rimasi stupefatta nel capire che il tempo dell’infanzia fosse passato tanto in fretta.

E che il tempo fosse passato troppo in fretta l’ho pensato anche ieri quando ho visto che Carlotta non aveva più la forza di vivere. Era molto stanca. Le palpebre scendevano sugli occhi come un peso morto e solo la curiosità riusciva a farle tenere sollevata la sua saracinesca sul mondo. Incerta veniva verso di me e afferrandosi al mio dito si teneva eretta. Poi la stanchezza, o chissà cosa, le ha fatto poggiare la testa a terra a puntello del corpo ancora sollevato. Poi i punti di appoggio sono diventati sei: coda, mani, piedi e testa. Si lasciava carezzare ovunque e dovunque le mie dita incontravano le sue ossa. Magrissima, sotto la pelle nulla più, come la mia mamma alla fine della vita. 

Carlotta era stata abbandonata alla nascita da Punk, la sua mamma. Poi fu allevata a mano. E così aveva partecipato alla vita della mia famiglia, si era attaccata ai vestiti e capelli dei miei amici, era venuta con me in tanti posti. Molti la ricordavano e chiedevano sempre sue notizie. Questo cebo è parte della mia vista privata e della mia vita lavorativa. Carlotta con tanto di nome, è sulla copertina di riviste, è stata su centinaia di manifesti attaccati sui muri di Torino per reclamizzare una mia conferenza, è nelle illustrazioni e/o nel testo di tanti articoli scientifici e di libri. Carlotta ha contribuito a tantissime ricerche primatologiche ispirando nuove interpretazioni del comportamento delle scimmie. Per tutti quelli che hanno lavorato con lei Carlotta è stata una persona appartenente ad un’altra specie.

Carlotta era particolare. A tre anni risolse il suo primo esperimento sull’uso di strumenti per estrarre da un tubo stretto una “ginevrina” (zuccherino colorato che si trova ancora in alcune pasticcerie). Anche altri cebi più grandi, ci erano riusciti ma lei era la sola a fare un grazioso gridolino di soddisfazione quando il premio usciva dal tubo.

In un altro esperimento per valutare quanto era difficile imparare “a lavare le patate” -- comportamento per il quale i macachi del Giappone erano diventati famosi come animali “culturali” -- tutti i cebi, tranne Carlotta, in un paio di ore avevano imparato a “lavare”. Non capacitandomi di quel fallimento e sapendo che lei stava attraversando un periodo psicologicamente difficile, in cui si isolava dagli altri membri del gruppo che a volte l’aggredivano, decisi di farle fare l’esperimento da sola. Ci volle un attimo perché togliesse la sabbia e immergesse la pesca nell’acqua e se la mangiasse felice. E così Carlotta ed io abbiamo potuto dimostrare - in un articolo poi pubblicato - quanto il contesto sociale influenzi la prestazione e che i macachi non sono più “culturali” dei cebi.

Da Carlotta ho imparato moltissimo, anche cose apparentemente sceme. Lei era dello Slow Food prima ancora che questo movimento esistesse. Mangiava sempre lentamente ed era molto selettiva. I cibi dovevano avere la consistenza e il sapore che a lei piacevano e non faceva compromessi. Le arachidi dovevano essere masticate a lungo e diventare  una “crema” prima che lei le deglutisse. Del resto anche a me il gelato piace quando ha la giusta consistenza e non è troppo duro  e ...naturalmente deve essere di ottima qualità. Carlotta era raffinata: ad ogni arachide era solita togliere non solo la pellicina marrone, ma anche il germe (quella piccolissima parte che si trova alla base dei due cotiledoni). Prima di mangiarla separava la nocciolina in due e rimuoveva il germe con l’unghia. Ma io non capivo perché lo facesse. Così l’ho imitata e ho estratto il germe a parecchie arachidi. Per poterle assaporare bene volevo averne in bocca non una, ma parecchie. Mi diventò tutto chiaro: i germi erano amarognoli … e Carlotta che se ne era accorta non voleva rovinare il sapore delle arachidi. Provate anche voi e vi sarà chiaro quanto si può imparare mettendosi nei panni altrui.

 

Un ricordo di Pino Zappalà, Extramuseum, organizzatore dal 1986 dei Giovedì della Scienza a Torino.

Già da neonata Carlotta era una promessa! Il modo in cui stringeva fra le mani il biberon – quando l’ho vista la prima volta nel salotto di casa Visalberghi -- era molto determinato, oltre che tenero e grato. Era il 1986. Nel mondo imperversava l’edonismo reaganiano e in Italia il craxismo, suo sottoprodotto; ma ricercatrici serie come Elisa e Carlotta non si facevano distrarre … già lavoravano in team per la scienza.
Cara Carlotta, la tua foto è sempre là, vicino alla mia scrivania, accanto a quella di Pippi. I miss you!

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